La Turchia di Erdogan censura gli autori stranieri. Anzi, no. O invece si?
Europa, terra di poeti, santi, navigatori e… banditi. Non quanti assaltano le banche e nemmeno quelli stile Fra Diavolo. Banditi nel senso di persone messe al bando, ovvero allontanate, indesiderate, espulse.
I reietti dell'ultima ora sono nientemeno che Shakespeare, Cechov, Brecht e, forse, il Premio Nobel Dario Fo, ché il suo nome appare e scompare dalle liste, peraltro ufficiose.
La notizia dell'ostracismo cui la Turchia di Erdogan condanna gli autori stranieri, patrimoni universali della collettività, lascia stupefatti ed increduli. Poi, con coup de théatre, muta, cambia pelle come uno strisciante simbolo di tentazione ed è sostanzialmente ribattuta in due versioni. Ma entrambe lasciano intravedere il medesimo scenario.
Tutto inizia da Nejat Birecik, vicepresidente del Devlet Tiyatrolari, la Direzione ufficiale delle imprese nazionali di teatro in Turchia, il quale con una dichiarazione fa sapere che si dovranno rappresentare solo testi di scrittori turchi per «contribuire all'unità e all'integrità della patria». Il tiro viene prontamente aggiustato da altra fonte, con il quotidiano turco Hurriyet che afferma trattarsi di una linea programmatica riguardante solo le serate inaugurali delle sale statali e non interferisce con la restante programmazione dei cartelloni ("Apriremo le nostre sale solo con opere locali..."). Quindi di censura in senso stretto non si tratterebbe, bensì di un Pierino che urla "al lupo, al lupo". E se Pierino avesse ragione? Se fosse proprio censura?
Il non detto ma suggerito - ufficialmente - suona impositivo. Una sola conclusione appare lampante: non siamo in ambito teatrale ma politico, e il teatro, non a caso circoscritto a vernissage, a vetrina, è una punta d'iceberg che, a fronte di un decimo di volume emerso, ne nasconde nove decimi di sommersi. È sul campo politico che è stato chiamato in gioco il Bardo, già nel Cinquecento per nulla ignaro degli intrighi di Corte.
Il teatro, se c'è, è la rappresentazione che il potere offre di se stesso.
La nota diramata dal Piccolo di Milano centra il bersaglio e Sergio Escobar vede lontano nell'allargare l'ottica agli ideali Comunitari. La Turchia è in lista d'attesa per entrare a far parte della UE ma al contempo non riesce a non guardare all'Est con malcelata ammirazione, giudica la cultura europea come esulante dai propri valori e la taccia di attentare all'identità nazionale, salvo poi accorgersi dello scivolone e cercare di nascondere la buccia di banana. La censura palese esporrebbe a una gogna mediatica, in questo momento storico controproducente per il Paese guidato da Erdogan. Meglio quindi la via meno appariscente di un sasso lanciato ma dipinto come "spazio dato alla riscoperta del teatro turco".
Nello stesso senso edulcorato, anche le risposte ufficiali delle ultime ore pervenute da parte di Yilmaz Sertel Kilcil, portavoce del Devlet Tiyatrolari: "claims that all foreign productions were shelved for the year were wrong. He told the Evrensel newspaper that only the opening plays will be all Turkish: foreign productions would continue to be part of their repertoire for this season". ("Le rivendicazioni che tutte le produzioni straniere fossero state messe da parte per quest'anno erano sbagliate. Lui disse al giornale Evrensel che solamente gli spettacoli di apertura sarebbero stati tutti turchi: le produzioni straniere avrebbero comunque continuato a far parte del repertorio di questa stagione.")
Certo, chi è senza peccato scagli la prima sceneggiatura. Nessuna società è esente da errori nel percorso di civilizzazione e tutti dobbiamo fare i conti con qualche scheletro nell'armadio. Il nostro è durato dal medioevo all'epoca barocca, quando i teatranti non potevano ricevere i sacramenti né essere sepolti in terra consacrata. Tempi bui che credevamo estinti dal lume della ragione e invece si riaffacciano alla finestra sul presente come un virus non debellato.
La globalizzazione non è servita ad attingere alle diverse esperienze rendendole comuni, a fare tesoro di apprendimento dagli sbagli compiuti, onde saltare qualche tappa nella difficile strada che conduce dall'arretratezza allo sviluppo. Il nuovo Millennio ripiomba sempre più spesso in un deja-vu di epoche oscurantiste, quando assieme ai libri venivano incenerite le idee, quando si incarcerava Galileo, colpevole di visioni innovative o semplicemente diverse. Il Mondo sta arrancando nel garantire quel benessere monetizzabile nella libertà di pensiero, di operato, infine di giudizio che dovrebbe essere demandato al singolo e non statalizzato. Ci siamo illusi che quel numero a tre zeri, apparso sui calendari sedici anni fa, avesse resettato il passato e proiettato automaticamente in un futuro migliore.
Il domani, invece, non è questione di lunario: è sempre una conquista, sia per le persone che per gli Stati.
Il polverone sollevato dalla presa di posizione turca, qualsiasi forma abbiano assunto o assumeranno i reali contorni, copre con la sua patina grigia e soffocante il concetto di cultura in senso lato, intesa come motore del progresso di ogni popolo, di tale potenza da incutere ancor oggi paura in chi cerchi di arroccare le proprie fragilità dietro le mura illusorie dell'inteso, malinteso.
L'atteggiamento di là dal Bosforo, inneggiante a un nazionalismo che soffoca se stesso tra le spire di un processo involutivo, pare quanto meno anacronistico nell'attuale contesto europeo. Perciò l'Europa si senta spronata a rafforzare, in via cautelativa, la propria identità comunitaria, basata sulla libera circolazione di individui e di idee; su una libertà, priva di linee che la circoscrivano (non importa se visibili o criptate) e che sia il fondamento, ereditato dagli avi, sul quale edificare il futuro di tutti e per tutti. La forza del libero pensiero, tradotta in azioni, dovrebbe come un boomerang essere rispedita al mittente.
Penseremo a tutto questo, quando il 4 ottobre la stagione teatrale in Turchia sarà inaugurata un'alzata di sipario ideologica che presenterà soltanto otto pieces in 65 teatri di tutta la nazione.